La crisi demografica impone all’Italia politiche di cittadinanza inclusive, dentro e fuori i confini nazionali
Non è la prima volta che lo scrivo: l’Italia è un paese sempre più vecchio. Se non verrà invertita la rotta della natalità con misure strutturali nel 2050 avremo 5 milioni di italiani in meno: solo poco più di una persona su due sarebbe in età da lavoro, con un 52% di persone tra i 20-66 anni che dovrebbero provvedere sia alla cura che alla formazione delle persone sotto i venti anni (16%), come anche alla produzione di adeguate risorse per il mantenimento e l’assistenza ai pensionati (32%). In questo quadro le nascite annue potrebbero scendere nel 2050 a 298 mila unità. Sono alcuni dei dati Istat illustrati dal presidente Gian Carlo Blandiardo agli Stati Generali della natalità svoltisi qualche mese fa a Roma.
Di fronte ad un simile scenario e al suo inevitabile impatto negativo sull’economia, qualsiasi Paese avrebbe da tempo messo in atto politiche adeguate ad invertire questa tendenza nel breve, medio e lungo termine.
Sul lungo termine è possibile, oltre che auspicabile e necessario, intervenire con un piano di sostegno alle coppie giovani, alla natalità e alle famiglie; l’introduzione dell’assegno unico va esattamente in questa direzione e pur non essendo l’unico strumento né quello risolutivo si è già dimostrato un primo importante passo in direzione di un più forte e determinato sostegno pubblico alle famiglie italiane.
Nel breve e medio termine sono invece centrali le politiche migratorie, direttamente collegate all’adeguamento della nostra normativa sulla cittadinanza dei giovani stranieri nati in Italia ma anche all’applicazione intelligente della legge che consente il riconoscimento della cittadinanza per i nostri discendenti nati all’estero.
Mettere in contrapposizione le due cose, alimentando una innaturale nonché incomprensibile contrapposizione tra emigrati ed immigrati, avrebbe solo l’effetto di rendere al tempo stesso meno semplice l’approvazione del cosiddetto ius scholae e sempre più tortuoso l’accesso alla cittadinanza ius sanguinis.
Dovremmo essere noi italiani all’estero, immigrati o discendenti di chi arrivò nei grandi Paesi di immigrazione italiana, a sostenere con maggiore convinzione e determinazione l’inclusione dei ragazzi stranieri regolarmente residenti nel Paese al compimento di un intero ciclo di studi, così come previsto dalla legge attualmente all’esame del nostro Parlamento.
Una recente inchiesta, divulgata poche settimane fa da YouTrend, un autorevole istituto di ricerca, ci dice che il 59% degli italiani sarebbe d’accordo con l’approvazione dello ius scholae; un atteggiamento che non è solo prevalente nell’elettorato tradizionalmente più progressista, visto che quasi la metà, (il 48%), degli elettori della Lega (il partito che ufficialmente si contrappone alla legge) la penserebbe allo stesso modo.
Sono oggi circa 877.000 i bambini minorenni senza cittadinanza italiana che frequentano la scuola italiana, quasi uno su dieci, e nessuno dei loro compagni di scuola comprende il perché di questa discriminazione.
Alimentare una innaturale contrapposizione tra emigrati e immigrati farebbe male a entrambi
La nostra legge sulla cittadinanza risale al 1992; a trenta anni dalla sua approvazione sarebbe utile a tutti una riflessione fuori dai pregiudizi ideologici e dai vecchi schemi. Lo ius sanguinis andrebbe sostenuto in maniera intelligente e non come fosse una vecchia bandiera nazionalista, individuando nuovi strumenti, insieme a programmi e progetti, per dare valore e sostanza alla cittadinanza degli italo-discendenti, ad esempio introducendo elementi che favoriscano una sempre maggiore aderenza ai nostri valori, alla nostra lingua e cultura, in una parola alla nostra comunità. Secondo questa concezione, i cittadini italiani nati all’estero dovrebbero essere i ‘fratelli maggiori’ dei tanti giovani nati in Italia da genitori immigrati, in un abbraccio trasversale e interculturale che dovrebbe vederli insieme protagonisti dell’Italia del futuro.