“PIANO CONDOR”: UNA SENTENZA STORICA
Dopo venti anni si è concluso a Roma il processo contro i crimini delle dittature sudamericane
Con 24 condanne su 25 si è concluso a Roma, a venti anni dall’inizio delle indagini, il processo contro gli autori dei crimini perpetrati negli anni ’70 dalle dittature di Argentina, Brasile, Cile, Bolivia, Perù, Cile e Paraguay.
Un processo “storico”, non solo perché sono stati giudicati reati che la giustizia italiana ha considerato “imprescrittibili”, come è il caso dei casi di tortura, sparizione di persone e genocidio; l’importanza della sentenza della Corte di Appello italiana va soprattutto addebitata al carattere transnazionale e internazionale del processo. Per la prima volta non sono stati giudicati i singoli atti criminali ma il complesso di azioni che rientravano nel cosiddetto “Piano Condor”, che consisteva (come ha scritto la Corte interamericana dei diritti umani) nella “pratica sistematica del terrorismo di Stato” attraverso la cooperazione delle dittature sudamericane di quegli anni.
A consentire alla giustizia italiana l’avvio del processo è stata la cittadinanza italiana di alcune tra le 43 vittime e i 25 imputati. Tutto ebbe inizio venti anni fa, a un anno di distanza dal mandato di cattura internazionale emesso dal giudice spagnolo Baltasàr Garzon nei confronti dell’ex dittatore cileno Augusto Pinochet. L’allora capo della Procura della Repubblica di Roma, Giancarlo Capaldo, che stava indagando sulla sparizione e morte di alcuni italiani in Cile, aprì nel 1999 una indagine che ricondusse quei delitti ad altri analoghi avvenuti in quegli anni in Sudamerica; nel 2006 l’inchiesta si conclude con 146 mandati di arresto e l’inizio ufficiale del processo. Al momento del rinvio a giudizio degli imputati il governo italiano (il Primo Ministro era Enrico Letta) si costituisce parte civile, collaborando attivamente al processo in tutte le sue fasi. Si costituiscono parte civile anche alcune organizzazioni sociali e politiche italiane e uruguaiane: il Partito Democratico e le organizzazioni sindacali italiane; il “Frente Amplio” uruguaiano.
Nel gennaio del 2017, alla presenza del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi, viene emessa la prima sentenza, con la condanna di otto imputati, mentre diciannove erano stati assolti. Ad essere condannati furono coloro che all’epoca dei fatti ricoprivano le cariche apicali: Presidenti della Repubblica, Ministri degli Esteri o Capi della polizia. L’8 luglio scorso, invece, la Corte d’Appello italiana ha esteso la condanna a tutti gli imputati, accogliendo in pieno il ricorso presentato dagli avvocati delle vittime. Ad essere condannato all’ergastolo c’è anche Nestor Troccoli, il capo dei servizi segreti dell’Uruguay fuggito dal sud del Brasile, autore di torture che lui stesso ha descritto in un libro: “L’ira del leviatano”.
I crimini contro libertà e diritti umani non possono
essere prescritti: è questo il senso del processo
Nonostante l’assenza dei rappresentanti del governo italiano nella seduta che qualche settimana fa ha ribaltato la sentenza del 2017 e confermato in pieno l’impianto accusatorio alla base di questo storico processo, il processo al “Piano Condor” rappresenta per noi italiani e per tutti i difensori dei diritti umani e civili nel mondo un traguardo importantissimo verso la costruzione di una giustizia universale che non accetta nessuna forma di oblìo e prescrizione per reati contro l’umanità.
Un precedente importante per tutti quei Paesi che nel corso degli anni, e ancora oggi, si macchiano di crimini orrendi come la tortura, la sparizione forzata di persone o il genocidio.
L’Italia ha dato un segnale importante a tutto il mondo: la difesa dei diritti umani non ha scadenza e gli autori di quei crimini devono e possono essere perseguiti al di là di qualsiasi termine legale di prescrizione dei reati. Non è poco, in un mondo dove esistono ancora governi autoritari e dittature e dove altri (ne abbiamo parlato qualche mese fa in questa rubrica) si caratterizzano come “democrature”, democrazie di facciata che spesso ricorrono a metodi autoritari e non sempre democratici per mantenere il potere.