Comunicato 17 febbrario 2019 – Ufficio Stampa On. Fabio Porta
Il caso ambiguo e confuso dell’esigenza della conoscenza della lingua al momento della domanda delle cittadinanze per matrimonio
Il recente “decreto sicurezza”, come più volte ho avuto modo di denunciare, interviene in maniera impropria e inopportuna sul delicato tema della cittadinanza.
Un Paese “vecchio” come l’Italia dovrebbe affrontare questo tema in maniera inclusiva e innovativa, soprattutto quando il riferimento è alle cittadinanze ‘ius sanguinis’ o a quelle per matrimonio, che nulla hanno a che vedere con il tema della sicurezza o della lotta al terrorismo (oggetto del “decreto Salvini”).
Nel caso della cittadinanza per matrimonio, per esempio, con questo decreto si esige “all’atto della presentazione della domanda una conoscenza della lingua italiana non inferiore al livello B1”; una richiesta che, come hanno già fatto notare i parlamentari del Partito Democratico, costituisce una “remora e un freno” alla legittima aspirazione di condividere la cittadinanza italiana da parte di chi sposandosi entra a fare parte non solo di un nuovo nucleo familiare ma della “grande famiglia degli italiani nel mondo”.
Non sono contrario all’esigenza di conoscenza di alcune elementari nozioni di lingua italiana da parte di chi, accingendosi a divenire cittadino del nostro Paese, si integrerà con la nostra cultura anche attraverso la lingua, principale strumento di socializzazione e condivisione sociale.
Tale esigenza, però, va introdotta con intelligenza e buon senso.
E a questo proposito faccio notare una evidente incongruenza nel decreto, che richiede all’inizio di un processo che durerà ben quattro anni (!?) la conoscenza della lingua, addirittura con un “certificato B1”.
Se si voleva, insieme alla promozione della conoscenza della lingua italiana, sostenere i vari enti responsabili per l’insegnamento della lingua italiana in Italia e all’estero (Istituti di Cultura, Dante Alighieri, Enti Gestori), bastava inserire questa esigenza a completamento del lungo iter di trattazione della domanda e quindi al momento della concessione della cittadinanza. Un accorgimento semplice che darebbe, appunto, un grande impulso a questi enti e che sarebbe più coerente con la richiesta di una conoscenza della lingua a seguito di una cittadinanza “per matrimonio” (che per sua natura non è basata sulla necessaria comunanza linguistica tra i due coniugi). Un piccolo intervento di buon senso, che presupporrebbe però che questo decreto e tutte le norme dell’attuale governo italiano sulla cittadinanza fossero ispirate al buon senso, appunto, e non alla criminalizzazione di stranieri in Italia e italiani nel mondo.
Ho già sottoposto ai colleghi parlamentari questa osservazione, trovandoli attenti e disponibili; su questa e altre questioni continuerò a impegnarmi, convinto che cittadinanza equivale a inclusione e integrazione e non a mortificazione e penalizzazione, come Salvini & C. continuano a credere e sostenere.
Fabio Porta
Coordinatore del PD in Sudamerica; già Presidente Comitato italiani nel mondo della Camera dei Deputati