“La primavera calda del Sudamerica”; il mio articolo su “Comunità Italiana” di questo mese:
LA PRIMAVERA CALDA DEL SUDAMERICA
Un continente in crisi, dal Venezuela alla terra del fuoco
Cosa succede in Sudamerica ? Hanno qualcosa in comune le drammatiche proteste sociali in Cile ed Ecuador, l‘instabilità politica in Argentina e Uruguay, le crisi istituzionali in Bolivia e Peru, la situazione brasiliana e la crisi venezuelana ?
Nonostante si tratti di realtà estremamente diverse, la coincidenza di tante crisi nella grande regione sudamericana in un arco di tempo così ravvicinato ci inducono a fare qualche riflessione.
E’ indubbio che dopo il ciclo espansivo iniziato intorno al 2000 grazie al boom delle commodities in tutto il continente siamo lontani dagli indici di crescita del PIL di quegli anni. Apparentemente, le recenti svolte conservatrici, dall’Argentina al Cile passando per il Brasile, non avrebbero contribuito ad un sostanziale miglioramento della situazione economica.
“Il Sole 24 ore”, autorevole quotidiano economico italiano di proprietà della Confindustria, arriva addirittura ad affermare che “le recenti svolte conservatrici o di destra populista tra numerosi e influenti governi della regione non hanno affatto mantenuto promesse di portare nuova crescita, stabilità e trasparenza con riforme di mercato. Anzi, oggi rischiano di aggravare impoverimento, collassi dei deboli ceti medi, drammi di corruzione e spirali di esasperate proteste per l’assenza di qualunque riforma efficace” (Marco Valsania, 21 ottobre 2019)
Prendiamo il caso del Cile, unico Paese sudamericano membro dell’OCSE, l’organizzazione dei Paesi più ricchi e sviluppati. Ebbene, il Cile, spesso indicato come esempio per i livelli di crescita e sviluppo relativamente superiori agli altri Paesi della regione, è oggi uno dei paesi più diseguali del mondo, dove l’1% della popolazione detiene il 26,5% della ricchezza, e il 50% più povero solo il 2%. Ciò è il frutto, secondo il Professor Giovanni Agostinis dell’Università cattolica di Santiago “di un regime fiscale regressivo, in base al quale tutti pagano poche tasse, senza alcuna distinzione tra l’1% e il resto, e lo Stato abiura al suo ruolo “equilibratore” di garante del patto sociale”. “L’istruzione – continua Agostinis – è tra le più costose dell’America Latina, agendo come un potente catalizzatore delle disuguaglianze esistenti invece di promuovere mobilità sociale”. L’analisi del docente della “Cattolica” è impietosa, e ricorda un po’ il caso del Brasile: “Il sistema di salute pubblica è limitato nella sua copertura e nella qualità delle prestazioni. Il risultato è che prospera un sistema di assicurazioni sanitarie private, costosissime. Lo stesso dicasi per il sistema pensionistico, dato in gestione a compagnie assicurative private, le quali erogano pensioni misere che non arrivano ai 400€ al mese di media. Il privato fa il suo lavoro: generare profitto”. La conclusione è una sentenza inequivocabile: “È lo Stato che non ha fatto il suo lavoro in Cile: garantire alla popolazione l’accesso ai servizi basilari, garantire quel minimo di equilibrio funzionale alla stabilità politica e sociale del paese”.
Di fronte a un tale quadro socio-economico non sono più sufficienti le tradizionali risposte, tanto di destra quanto di sinistra; meno ancora possiamo affidarci alla ormai sterile dialettica Stato-Mercato per la soluzione di crisi profonde e complesse, impossibili da affrontare in assenza di un nuovo ‘patto sociale’ condiviso tra gruppi sociali e politici diversi; una ristrutturazione radicale delle agende di cambiamento di tutti i Paesi del Sudamerica, con al centro la riduzione delle disuguaglianze a partire da un investimento maggiore in salute ed educazione, essenziali per una efficace ridistribuzione del reddito. Un’agenda di “politica interna” che dovrebbe essere accompagnata e sostenuta da una nuova “agenda internazionale”, non orientata soltanto ad un auspicabile rafforzamento del Mercosul e, più in generale, al processo di integrazione regionale. L’Unione Europea, ad esempio, dovrebbe occupare un ruolo centrale e strategico nel rapporto con l’America Latina e gli stessi Stati Uniti farebbero bene a uscire dallo splendido isolamento dell’“America First” di Donald Trump per esercitare un ruolo di stimolo allo sviluppo delle economie del resto del continente.